Sono passati quasi quarant’anni ma quest’avventura è ancora ben viva in me e ancora fatico a raccontarla senza emozionarmi.
Era un po’ prima dell’estate, quella d’un tempo, con sole e caldo accettabili.
Io velista zero+, un’amica velista zero – – e l’amico Tosi Roberto il più esperto, anzi l’unico esperto.
L’occasione si prospetta quando un comune amico, armatore di un meteor, ci racconta che sarebbe andato a farsi le ferie nell’allora Yugoslavia. Affamati di navigare cogliemmo la palla al balzo e proponemmo di riportargli la barca a casa, dopo averci fatto la nostra settimana.
L’accordo fu ben accettato e dopo qualche settimana si partì. Sappiamo tutti che una settimana vola e ben presto arrivò il venerdì, giorno classico in cui tutti i naviganti settimanali si organizzano per tornare a casa. Sveglia alle sette dalla notte trascorsa all’ancora nella baia di mezzo a sud di Unije, sbirciatina al cielo che apparve di buon umore e, ascoltato il bollettino da una vecchia radio, decidemmo di partire.
Salpiamo puntando a nord dove trovammo un pescatore cui, prudentemente, chiedemmo un ulteriore parere sul meteo spiegando l’intenzione di attraversare il Quarnaro per arrivare a Pomer. Chi meglio di lui ci poteva consigliare!
Rassicurati dall’esperto parere dirigemmo a vele piene, con una bella brezza, verso la Galijola a metà Quarnaro.
Non ricordo esattamente i dati comunque si veleggiava bene, anzi, sempre meglio e sempre più veloci.
Dopo circa un’oretta notammo che, all’incirca su Pola, si stava formando un grosso ed esteso nuvolone temporalesco. Non ce ne curammo più di tanto perché sembrava spostarsi verso est allontanandosi da noi.
Trascorse del tempo e il vento aumenta e ovviamente con esso l’onda. Il comandante suggerisce di ridurre la randa. Con fare impacciato, in qualche modo, riuscimmo nell’impresa e la barca si sentì chiaramente che filava meglio di prima. Ma il vento continua ad aumentare (Ora che scrivo ricordo che eravamo con mure a dritta quindi il vento era di bora!).
Poco dopo Roberto ordinò di sostituire il genoa col fiocco. Il lavoro si prospettò subito più impegnativo del precedente. Il minuscolo triangolo di prua, e le onde alte, rendevano l’equilibrio precario e difficile ma, fra un salto e un altro, bagnato fradicio, riuscii nell’impresa. Subito la barca prese un altro equilibrio ben più rassicurante di prima.
Del concetto sicurezza sapevamo poco, eravamo giovani e forti! Ma soprattutto incoscientemente inesperti! La sicurezza di bordo era minimal: razzi, anulare con cavo, un solo giubbotto salvagente e nulla più. A quel punto, per “sicurezza” l’amico esperto ordinò: “Accendi il motore, non si sa mai!”. Il vecchio fuoribordo di 4 HP, che data l’età, erano pure stanchi, partì quasi subito.
Per prudenza controllai il livello di carburante nel serbatoio incorporato e cercai di rabboccarlo ma, fra un’onda e l’altra, complice l’equilibrio molto precario, probabilmente vi entrò più acqua che benzina, e alle parole del comandante: “quel motore non dovrà mai spegnersi”, nemmeno finita la frase con un “pot-pot” sommesso esalò l’ultimo scoppio e non volle più saperne di ripartire!
Andammo alla via così con vento, ormai arrivato sui 20 Kn, e onde in costante aumento.
Con una certa fermezza, invitiamo l’amica, alquanto preoccupata, a chiudersi in quadrato e reggersi ben forte informandola che avremmo proseguito di bolina fino ad arrivare a “ridossarci dietro” alla Galijola, ormai in vista, e li decidere se tornare o proseguire.
Giunti sul posto dal quadrato esce l’amica che, in pieno panico con maschera subacquea indossata e pinne in mano (era un’ottima sub), era pronta a scendere sullo scoglio. A fatica la trattenemmo e la ricacciammo brutalmente sottocoperta!
Controllando quello che per noi era un temporale, ci riconfermammo il suo percorso verso est quindi, non ci viene incontro quindi, … prima o poi vento e mare si sarebbero attenuati! “Forti” dell’autovalutazione meteo, decidemmo di ripartire alla volta di Pomer col solo fiocco a riva pensando di aver già percorso metà tragitto.
Poco dopo però ci accorgemmo che vento, e onde ormai striate di bianco a creste frangenti, erano in costante aumento accompagnate da un rombo impressionante. Stimo ora un vento sui 30/35Kn con uno stato del mare 6. Certo, viste da una barca più grande potrebbero non essere un granché ma, da bordo del nostro guscietto e con la scarsa esperienza di paragone, sembravano montagne. La ragazza sottocoperta stava malissimo, io e il Tosi continuammo a guardarci senza parlare con espressioni interrogative che a fatica nascondevano la paura. Aggrappato come un polipo, tra battagliola e tientibene sulla tuga, guardavo le onde ormai alte almeno tre metri, che in più si erano fatte incrociate e pronosticavo quale sarebbe stata quella che ci avrebbe coricato. Così una dopo l’altra ripetevo dentro di me: ecco, questa è quella giusta, e invece la barchetta, anche se con fatica, riusciva a salirci sopra; ecco allora è quest’altra! E ancora la barchetta faceva il miracolo … e avanti per ore! La barca si difendeva molto bene anche perché era condotta bene, era dolce sull’onda e obbediente al comando quando saliva e scendeva da quelle montagne liquide. Così si avanzava! Lentamente, inverosimilmente sballottati, ma si avanzava.
A un certo punto diminuì pure la visibilità che ci nascose alla vista l’unico punto cospicuo certo che avevamo: i due caratteristici, e unici, bianchi campanili della chiesa di Medulino che fortunatamente la ragazza aveva notato alla partenza.
Quindi che si fa? Ovvio: si naviga con la bussola! Quale bussola? Riovvio, con l’unica che abbiamo a bordo, quella da rilevamento! E chi la tiene? Chi riesce a leggerci qualcosa? Un colpo siamo lassù e poco dopo l’orizzonte non c’è più. Un colpo sbandati a sinistra e subito dopo a dritta sbattuti con poca gentilezza! Impossibile farsi un’idea della “rotta” con quel mezzo.
Continuammo sulle stesse mura guardandoci attorno semmai ci fosse qualche compagno in mare per copiarne la direzione. Nulla, nemmeno un gabbiano!
Dopo varie ore intuimmo l’accesso all’ampia baia di Medulino, e la cosa ci rasserenò non poco anche se la situazione era immutata.
Pur con gli occhi fissi sui due campanili, a causa della profondità di campo che inganna la vista, sbagliammo l’entrata che porta a Pomer e ci infilammo nella baia Bijeca alla sua destra. Ce ne accorgemmo in tempo e, dirigendo prima verso sud e poi a nord-ovest, entrammo finalmente nell’ampio “lago” di Pomer/Medulin. Manovrando a vela verso l’allora piccolo pontile del marina, due energumeni si protesero per afferrare il cavo d’ormeggio che lanciai inutilmente da prua poiché il vento lo respinse in barca.
Rifatta la manovra, che questa volta riesce, a fatica riescono a tenerci fermi prima di fissare il cavo ad una bitta.
Recuperata da sotto coperta la ragazza ormai distrutta (non vi racconto cosa c’era sotto!) e, aiutati dai signori a terra, finalmente scendemmo a terra bagnati fradici, infreddoliti, tremanti, ancora non so se più per la paura o per la fine dello stress e baciai la terraferma mentre sentivo i commenti dei presenti unanimemente affermare: grande barca quella!
Ricordo che, qualche ora dopo chiamando casa dalla cabina telefonica, dentro mi sono puntellato, sembrava tutto ballasse!
E qui ora un nodo mi stringe la gola, si anche in ricordo di questa forte avventura ma soprattutto di quei due cari amici che ho spesso nei miei pensieri poiché, come dicono gli alpini, “sono andati avanti”.
B.V. a tutti!
Spesso, ancora oggi, mi sorprendo a chiedermi: perché mai ci ostinammo ad andare comunque avanti?
- perché dovevamo andare a casa?
- perché non abbiamo pensato di scappare?
- Perché eravamo inesperti?
- perché …… mah!
No, non riesco a ricordare alcuna ragione tanto forte, valida e logica da giustificare quella scelta.
Fatto sta che fummo solo molto fortunati. La barca resse veramente molto bene ma alla fine lui, Nettuno, ci ha risparmiati e ora sono qui, purtroppo solo, a raccontarvela!
Meditate gente, meditate. Nettuno non sempre è benevolo se vuole vince sempre lui!
Francesco Rancan
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