E’ di questa zona la vicenda di Fiabio, figlio del gigante Baldo e della ninfa Melsinoe. Baldo, però, per la sua conformazione sì massiccia, ma àrida (“vegra”) era condannato a procreare figli stèrili.
Fu così che Fiabio – pur bello e forte – crebbe senza la gioia di potere avere un figlio e le sue fidanzate, una volta venute a conoscenza del motivo della sua tristezza, lo abbandonavano inesorabilmente.
Fiabio trovò motivo di vita dedicandosi interamente alla pesca nelle ricche acque del lago. Sua specialità era la cattura del carpione, che gli procurava i complimenti dei buongustai e dei ricchi signori della riviera del basso lago, di prìncipi e regnanti che glielo chiedevano con sollecitudine. Ma queste profonde considerazioni, pur significative, non lo consolavano dal fatto di non potere avere almeno un figlio.
Si rivolse allora ai due anacoreti Begnigno e Caro (a.D. 380) perché con la loro preghiera si facessero intermediari con Dio della sua pena. I santi eremiti, vista la sua devozione sincera, lo accompagnarono allora a una fonte segreta, dalle virtù miracolose, sconosciuta fino a quel momento ad ogni altra persona. Era la sorgente della Màrola.
Giunti colà si riunirono in preghiera, ne benedissero le acque e ritornarono al loro èremo, raccomandando a Fiabio di recarsi presso quella fonte per sette volte nelle notti di luna crescente per fare abluzioni ai suoi organi genitali.
Così avvenne.
Quando Fiabio si accorse di avere ottenuto ciò che non aveva mai provato, si unì con una Ondina del suo caro lago e con lei ebbe il sospirato figlio a cui tanto teneva. Riconoscente lo mostrò ai santi eremiti che gli avevano fatto ottenere questa grande grazia… (oltre a quella di aver reso di pubblico dominio la presenza della preziosa sorgente) e li ricompensò con del prelibato carpione, frutto del suo lavoro.
Il bambino cresceva bello e felice, robusto nel clima sàlùbre del lago. Fiabio lo adorava al punto che lo volle sempre vicino a sé per tema che glielo rapissero o non fosse accudito a sufficienza. Anche in barca. Un giorno, tornando a casa dalla pesca verso il porto di Menarolo (Assenza), pur essendo egli profondo conoscitore degli umori del bacino lacustre, lo colse una furiosa tempesta. Con perizia Fiabio governava l’imbarcazione ohe sobbalzava paurosamente sulle onde, corte e ripide, del lago e che custodiva, riposto nel gavone, il prezioso carico del figlio che aveva la tenera età di tre anni, ma un’ ondata più impetuosa delle altre traversò la barca che si capovolse.
Fiabio lottò disperatamente nell’acqua schiumante stringendo a sé il bambino e aggrappandosi con una mano alla chiglia che a volte emergeva, ma la barca affondò, e quando le onde lo scaraventarono contro un isolotto infìdo che sorgeva presso la costa si accorse, con raccapriccio, che il figlio non dava più segni di vita: asfissiato dall’acqua o traumatizzato contro le rocce dello scoglio…
La pietà degli uomini chiamò allora quell’ isolotto anonimo col toponimo di Trimulus, etimologia che significa ‘dalla tenera età di tre anni’: quella del bambino che vi perì.
Con il passare degli anni il nome si deformò in Trìmulo, Trimùlo, indi con l’aggiunta dell’accrescitivo -on (data la pur cospicua vastità della sua area). Poi in Trimelone per assonanza con altra voce comune di un ortaggio entrato nell’uso locale: il melone, ora epònimo diffuso di molte famiglie della zona.
Franco Abriani
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