L’articolo pubblicato sul numero di Giugno 2024 del nostro Giornalino, faceva cenno al concetto di raddrizzamento. Una barca a vela è soggetta a varie forze che ne possono determinare il ribaltamento: principalmente la pressione esercitata dal vento sulle vele e il moto ondoso, soprattutto quando le onde sono più o meno parallele all’asse longitudinale della barca.
Tali forze devono essere efficacemente contrastate: a questa azione di contrasto provvedono la forma dello scafo (stabilità di forma) e il peso dell’opera viva, in particolare i molti chili concentrati nella deriva, che arriva ad incidere per circa 1/3 sul dislocamento complessivo.
Le barche più vecchie, come il Gipsy Moth di Chichester, erano lunghe e strette, quindi la stabilità di forma era davvero scarsa. In compenso avevano tantissimo peso in chiglia. Le barche progettate a metà anni 70, anche per avere un rating IOR migliore, hanno modificato radicalmente il rapporto tra lunghezza al galleggiamento e baglio massimo, diventando molto più larghe a parità di lunghezza. Questa soluzione consentiva di avere una maggiore stabilità di forma: la barca sbandava meno e si poteva alzare più tela. Inoltre gli spazi sottocoperta divennero molto più generosi, migliorando l’abitabilità degli interni.
Al tempo stesso si ridussero drasticamente i pesi. Le barche divennero quindi più larghe e più leggere: ottime per le andature portanti ma penalizzate in bolina, soprattutto con vento fresco. La tendenza a progettare barche molto larghe, quindi con un baglio massimo davvero importante, non si è più arrestata. Le barche pensate per il charter hanno una larghezza è circa 1/3 della lunghezza dello scafo, ed il baglio massimo inizia metà lunghezza ed arriva quasi inalterato fino a poppa.
Alcuni clamorosi rovesciamenti hanno costellato la storia della vela oceanica degli ultimi decenni. Il più famoso è probabilmente quello di Isabelle Autessier, il cui Open PRB da 60 piedi si rovesciò in pieno Oceano Pacifico, sulla rotta tra la Nuova Zelanda e Capo Horn. La barca si capovolse a causa di un guasto improvviso del pilota automatico a cui seguì un treno di onde molto alte. La velista francese fu tratta in salvo, dopo quasi 48 ore, da Giovanni Soldini a bordo di Fila. Al suo arrivo sul luogo del naufragio il velista italiano, per rivelare la propria presenza, lanciò un grosso martello sulla chiglia, in prossimità dell’escape-oblò dal quale, dopo qualche secondo, uscì la Autessier, provata ma felice dell’esito della sua disavventura. Durante l’attesa aveva più volte tentato di raddrizzare la barca inclinando lateralmente la pinna della deriva mobile, ma la larghezza davvero considerevole conferì all’imbarcazione capovolta una grande stabilità che rese impossibile il raddrizzamento.
Tornando alla commissione di inchiesta dopo la tragica Fastnet Race del 13 Agosto 1979, la relazione concludeva: “L’aumento della proporzione tra larghezza e lunghezza, se da un lato conferiva una grande capacità di alzare più tela senza zavorra aggiuntiva ed al contempo di aumentare i volumi interni, dall’altro rendeva lo scafo molto stabile quando capovolto tanto che per raddrizzare la barca serviva circa la metà della forza richiesta per capovolgerlo… Barche da crociera classiche, con baglio più stretto a baricentro più basso, per raddrizzarsi richiedono invece solo un decimo dell’energia necessaria a capovolgerle di 180° “ .
Si potrebbe concludere che la ricerca della comodità e delle prestazioni non sono sempre compatibili con la sicurezza e che la matita del progettista (o il suo Cad) deve ricercare, come sempre, un compromesso per progettare barche che strizzino l’occhio al comfort senza perdere di vista le performance veliche e, soprattutto, l’esigenza primaria (ed imprescindibile) di ogni marinaio: riportare a casa la pelle!
Buon Vento!
Mirco Mascotto
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